30.7.20

Pezzi di tempo

Perché amare gli orologi? Visti dall'esterno sembrano tutti uguali. All'interno sono grovigli di molle, ruote, viti, leve comprensibili solo agli iniziati. La mia risposta sta nel sinonimo inglese delle parole "watch" (orologio di piccolo formato) e "clock" (sveglia, orologio da tavolo). Timepieces. Pezzi di tempo. Avere un pezzo di tempo sul polso, sul comodino, sulla scrivania o su una mensola. Sentirlo respirare (ticchettare). Osservarlo camminare. Lasciarsi cullare dalla malinconia quando il moto regolare e immutabile delle lancette ci ricorda che il tempo è una strada a senso unico. Il pezzo di tempo può misurarlo, non fermarlo. Ha facoltà limitate, proprio come chi l'ha creato, acquistato, usato. È una confessione di debolezza, non una prova di forza. Per questo lo sentiamo vicino, attraente. Meglio ancora se ha qualche decennio sulle spalle. Allora ci permette di viaggiare nella vita di chi ha l'ha posseduto prima di noi. Familiare se si trattava di un parente, sconosciuta se abbiamo trovato l'oggetto in un mercatino, in un negozio di pezzi vintage o grazie a uno scambio tra collezionisti. Non importa: anche se solo immaginato, quel viaggio ne aggiunge uno al nostro, ne aumenta la durata. Il tempo degli altri. La vita degli altri, ma non nel senso negativo del film sulla vita nella Germania Est.
La tentazione di immaginare può portare lontano e aiutare a scoprire qualcosa di se stessi. A me è capitato quando ho pubblicato il mio unico romanzo, L'Orologio Con Le Ali. Intorno a un orologio militare degli Anni 40, acquistato diverso tempo fa, ho costruito una storia ambientata tra la Seconda Guerra Mondiale e il presente. Un conoscente mi ha chiesto quanto c'è di me in quelle pagine. Molto, ho dovuto ammettere. La passione per gli orologi, ovvio. Ma anche l'interesse per la storia e l'ammirazione per molti aspetti della tradizione e della cultura britanniche, dal calcio e dalla musica rock al culto degli eroi, il tutto condito con i ricordi degli anni di guerra che ascoltavo da mia madre quando ero un bambino. Di tutto questo ero consapevole, così come ricordavo la foto del 1987 che appare qui sotto. Scattata davanti a un ingresso di Anfield Road, lo stadio del Liverpool, dal fotografo inglese con il quale preparavo un reportage per il Guerin Sportivo.

Sullo sfondo c'è il titolo della canzone che è diventata l'inno dei tifosi e la colonna sonora, se così si può definire, del romanzo. Non sono questi i dettagli che mi hanno colpito quando ho recuperato la foto da una scatola di diapositive. A farmi sobbalzare è stato il bavero della giacca. Si distingue il papavero di plastica che Bob, il fotografo, mi aveva appuntato all'occhiello. Probabilmente gli sembrava inopportuno farsi vedere in giro con qualcuno che, nel mese (novembre) dedicato ai caduti di guerra, non indossava il tradizionale omaggio collettivo.
Venticinque anni dopo, dedicavo lo scritto più importante della mia vita ai veterani e ai loro compagni che hanno dato la vita per la nostra libertà, e una vecchia foto me ne spiegava il motivo. A volte il tempo non è una strada a senso unico.

 

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