5.5.14

I fischi dell'Olimpico


Il sabato sera dell'Olimpico e dintorni differenzia l'Italia dal resto del mondo occidentale perché ha fatto emergere un elemento inedito. Non le violenze fuori dallo stadio. Non la trattativa del capitano e dei dirigenti di una squadra con un pregiudicato. Non la testimonianza di solidarietà a un criminale sbandierata su una maglietta. E nemmeno l'impotenza dello Stato. Scene già viste come l'indignazione rituale del dopo, i "mai più", le promesse di riscatto che nessuno finge più di prendere sul serio. 
La vera novità sono i fischi tributati da una parte consistente (maggioritaria?) dello stadio all'inno nazionale. Qualcuno riesce a immaginare una scena simile a Madrid, nella Spagna provata dalla crisi economica e attraversata dalle rivendicazioni autonomiste? O a Parigi, nella Francia del Presidente più impopolare di sempre, dove prima della finale di Coppa sono stati eseguiti due inni - quello della Bretagna in omaggio alle due squadre e la Marsigliese, cantata da tutti? O a Londra, epicentro di un Regno Unito dove le tenzioni razziali e religiose sono forti, ma la solidarietà ai fanatici che assassinarono un soldato nel 2013 quasi inesistente? O negli Stati Uniti dei cittadini armati fino ai denti e delle stragi nelle scuole, dove l'inno prima della finale del Super Bowl è un rito religioso? 
La risposta è no, ovviamente. E se mai qualcosa di simile dovesse accadere, probabilmente sarebbe una buona ragione per annullare la partita.
Parafrasando Neil Armstrong: quello di sabato sera è stato un piccolo passo per uno stadio, ma a me è sembrato anche un grande balzo verso la barbarie per un Paese intero.





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