Il sabato sera dell'Olimpico e dintorni differenzia l'Italia dal resto del mondo occidentale perché ha fatto emergere
un elemento inedito. Non le violenze fuori dallo stadio. Non la trattativa del
capitano e dei dirigenti di una squadra con un pregiudicato. Non la
testimonianza di solidarietà a un criminale sbandierata su una maglietta. E nemmeno l'impotenza dello Stato. Scene già viste come l'indignazione rituale del dopo, i "mai più", le promesse di riscatto che nessuno finge più di prendere sul serio.
La vera novità sono i fischi
tributati da una parte consistente (maggioritaria?) dello stadio all'inno
nazionale. Qualcuno riesce a immaginare una scena simile a Madrid, nella Spagna
provata dalla crisi economica e attraversata dalle rivendicazioni autonomiste? O a Parigi, nella Francia del Presidente più
impopolare di sempre, dove prima della finale di Coppa sono stati eseguiti due
inni - quello della Bretagna in omaggio alle due squadre e la Marsigliese, cantata
da tutti? O a Londra, epicentro di un Regno Unito dove le tenzioni razziali e
religiose sono forti, ma la solidarietà ai fanatici che assassinarono un
soldato nel 2013 quasi inesistente? O negli Stati Uniti dei cittadini armati
fino ai denti e delle stragi nelle scuole, dove l'inno prima della finale del
Super Bowl è un rito religioso?
La risposta è no, ovviamente. E se mai qualcosa
di simile dovesse accadere, probabilmente sarebbe una buona ragione per annullare
la partita.
Parafrasando Neil Armstrong: quello di sabato sera
è stato un piccolo passo per uno stadio, ma a me è sembrato anche un grande
balzo verso la barbarie per un Paese intero.
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