Il mio romanzo preferito degli ultimi tempi non è un romanzo. Si
intitola “The Good Son” ed è la biografia di Ray “Boom Boom” Mancini.
Premesso, per chi non lo sappia, che Mancini era un pugile americano dei
primi Anni 80, la ragione per cui ho trovato la sua storia più
appassionante di un romanzo è che nemmeno l’autore più spregiudicato
oserebbe condensare tutti gli ingredienti della fiction popolare in una
sola trama. Violenza, coraggio, ambizione, sacrificio, speranza,
riscatto, amore, trionfo, declino, tragedia. Soprattutto tragedia. Il
nome di Mancini è legato a un evento che varcò i confini dello sport: la
morte del coreano Kim Duk Koo, nel 1982, dopo il KO subito da “Boom
Boom”. Quell’episodio ha segnato profondamente l’opinione pubblica
americana (si parlò a lungo di abolizione della boxe), la famiglia di
Kim (la madre suicida, il figlio orfano prima ancora di nascere),
l’arbitro del match (un altro suicidio, così disse l’esito
dell’inchiesta) e naturalmente Mancini, che dopo quel dramma non è più
stato lo stesso. Di questo e altro si parla nel libro e nel
film-documentario che ne è stato tratto. Quest’ultimo si chiude con le
immagini struggenti dell’incontro fra Ray e i familiari di Kim.
Per
me è la quarta lettura di boxe in due anni. I protagonisti di questo
mondo non possono lasciare indifferenti perché la loro è una vita al
limite. La caccia alla gloria, alla ricchezza o semplicemente a un
futuro migliore passa attraverso esperienze di dolore e paura
sconosciute agli atleti delle altre discipline, in un ambiente che sa
essere perfino più spietato del ring.
Che i pugili siano personaggi
a parte l’ho sperimentato anche nella mia unica intervista a uno di
loro. Nell’aprile del 1993, inviato del Guerin Sportivo, andai a trovare
Giovanni Parisi mentre preparava la difesa del titolo mondiale contro
un pugile inglese. Con me c’era Beppe Briguglio, fuoriclasse del
ritratto fotografico e autore delle immagini che vedete qui sopra. Non
sapevo cosa aspettarmi, ma ci volle poco per capire che passavo dal
brodino insipido alla bistecca al sangue, dalle dichiarazioni
stereotipate di tanti calciatori a una Testimonianza con la T maiuscola.
Molto di quanto disse riguardava gli eventi di quei mesi, roba che al
lettore di oggi non interessa ma in quel periodo scottava: la politica
organizzativa, gli intrallazzi di un mondo infido.
Quando ho
riletto quelle pagine, ci ho trovato anche una frase che merita di
essere riportata perché spiega in parte cosa significa essere pugile.
“Da due mesi e mezzo faccio sei ore di allenamento al giorno. Flessioni,
piegamenti, pesi, prove di resistenza e velocità, jogging, scatti sulla
pista d’atletica, lavoro con i guantoni. Tutto questo, mangiando
un’insalata poco condita a pranzo e un passato di verdura a cena. La
notte dormo pochissimo perché la fame tiene svegli. Inviterei chiunque a
seguire questo regime. Non per ottanta giorni come me. Ne bastano due.
Potrebbe essere un’esperienza interessante”. Scrivendo che il racconto
spiega “in parte” la vita di un pugile, intendevo dire che questa è la
componente meno sgradevole. L’altra è fatta di colpi incassati al
fegato, al cuore, alle tempie, agli zigomi, al mento. Anche in
allenamento. Per chiarire, prendo in prestito un brano della biografia
di Mancini. A parlare è il suo manager: “… Il difficile era trovare gli
sparring partner. Offrivamo un compenso onesto, ma quasi nessuno lo
trovava sufficiente per pisciare sangue il giorno dopo”.
Due anni
dopo l’intervista, Parisi ebbe la chance di incontrare il grande Julio
César Chavez in un match che, in caso di vittoria, ne avrebbe fatto una
stella. Al mio direttore dell’epoca la boxe non interessava, così
rinunciai a proporre di essere inviato a Las Vegas e presi quattro
giorni di ferie per andarci a mie spese. Il giorno della partenza avevo
39.5 di febbre. Niente viaggio, persi i soldi della prenotazione e vidi
il match dal letto, in TV. Parisi fu sconfitto con onore.
Da
allora l’ho seguito da lontano fino al termine della carriera, sulla
soglia dei 40 anni. Nel 2009, il pugno da KO per i familiari, gli amici,
i tanti ammiratori: la morte in un incidente stradale a Voghera.
Purtroppo le storie di boxe hanno un difetto ricorrente. Non c’è la garanzia del lieto fine.
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